Mi sono fermata, a lungo, per guardare da fuori il mio rapporto con la scrittura e con il blog.
Principalmente ho capito di aver perso la mia strada, o almeno quella che ritenevo tale.
Non ho capito più se scrivevo per liberarmi di qualcosa, o se aspiravo invece a lasciare qualcosa di me agli altri (e per quale motivo, oltretutto), o se invece ero, sono, alla disperata ricerca di qualcuno che ascoltasse.
Non si chiama letteratura il bisogno di comunicare, è inutile continuare a domandarsi se è meglio scrivere in terza persona o in prima, se sia migliore il tempo passato o se la storia sia più fluida al tempo presente.
Non ho dedizione, non ho naturalmente mestiere ma nemmeno l’ambizione di scrivere ciò che gli altri vogliono leggere da me, possiedo unicamente l’egoismo necessario a girarmi intorno.. all’ombelico, appunto.
Nessuna verità assoluta, e nessuna emozione unica che il lettore potrebbe invidiare.
Riprendo in mano le mie vecchie storie non completate per cercare di dare un capo e una coda ai progetti, e per vedere se sarò in grado, così come sono diventata oggi, di scrivere una storia che ieri magari mi sarebbe scivolata fluida sulla pelle, tra le cosce, oggi invece si incastra in un fastidio sotto il seno sinistro.
Rileggo “Natale”. Ci trovo una complessata dal passato triste, una donna che si culla nel ricordo del carillon del padre e si innamora di persone che la rifiuteranno sempre. Una che si fa del male e ricerca il dolore fisico per non sentire la distanza che da sola crea con il resto del mondo. Mi appaiono, esagerati come in un dipinto surrealista, i miei fantasmi. Eppure allora vagavano e ancora vagano, liberi.
A cosa è servito scrivere?
C’era una ragazza che aveva un pessimo rapporto con il cibo. Aveva iniziato quando morì la nonna e lei, bambina alle elementari, si ritrovò tutti i pomeriggi a casa da sola, mamma e papà troppo presi dal lavoro per occuparsi di lei. Da grande era arrivata ad alzarsi di notte per svaligiare il frigo, e poi magari finire in bagno con due dita in gola.
Chi saprà se è una confessione oppure un’invenzione narrativa?
C’era una ragazzina timida, innamorata di un ragazzo più grande di lei. Lo spiava dalla finestra di casa quando lui usciva da scuola. Il giorno del suo compleanno lei svitò la lametta dal temperino e incise il nome di lui sulla lunghezza del polso sinistro. I genitori non si accorsero mai di nulla. Chi legge di questa persona proverà qualcosa, cercherà di comprendere chi si cela dietro il personaggio, vorrà individuare e conoscere la persona, oppure si limiterà a valutare l’ininfluenza letteraria di ciò che ha da raccontare?
Tantissimi files, molti incipit che non si sono mai evoluti, piccoli gruppi di righe senza scopo.
Cara Agnès, facciamo continuamente autobiografia, qualunque cosa scriviamo: quando parliamo di film, di libri, persino (soprattutto) quando mettiamo giù la lista della spesa. Dalle maglie lasse della nostra anima fuoriesce ciò che siamo, ma anche ciò che ignoriamo di essere. Non siamo cioè sempre consapevoli di ciò che produciamo: non padroneggiamo neppure la nostra vita, figuriamoci quello che creiamo. Esistono zone oscure di cui conosciamo poco perché sono ancorate al nocciolo di noi stessi. Ogni tanto affiorano inaspettatamente in superficie, ma non ne abbiamo pieno possesso. Prendiamo atto della scoperta, quindi della loro esistenza, e apprendiamo qualcosa di più circa noi stessi. Altre volte si tenta di rimuoverle ricacciandole in profondità, perché non abbiamo forza e coraggio sufficienti per affrontarle. Sarebbe tuttavia necessario accettare l’idea che dobbiamo convivere con aspetti inediti di noi, spesso incompiuti, che sorprendono e talora inquietano. Conosci te stesso è un obiettivo certamente irrealizzabile, però si dovrebbe almeno provare. Magari vinciamo qualche cosa…
Ciao, a presto.